Quattro decenni fa il mondo era radicalmente diverso rispetto a oggi. Erano i tempi della Guerra Fredda e dei Paesi divisi in due blocchi contrapposti, tanto per visione quanto per missione. Erano state le ideologie del ’700 e dell’800, sorrette dalle rispettive teorie economiche, a schierare politici e Stati su due campi radicalmente diversi: da una parte i fautori dell’economia di mercato, della proprietà privata e della democrazia multipartitica, almeno a parole; e dall’altra i sostenitori della programmazione economica, della proprietà collettiva e della democrazia a partito unico. Ma non tutto il pianeta, alla fine degli anni ’70, era riconducibile ai soli blocchi sovietico e statunitense: iniziava a emergere il protagonismo di quel Terzo Mondo impegnato in lotte per l’indipendenza dal colonialismo (in Africa e in Asia) o per l’autonomia da Washington (in America Latina). Il Movimento dei non allineati divenne progressivamente la palestra per la formazione di una leadership tra quei Paesi che “non ci stavano” a essere parte di un blocco nel quale la loro voce non veniva presa in considerazione.
Nel 1980 veniva pubblicato il Rapporto delle Nazioni Unite affidato a Willy Brandt che introduceva una nuova prospettiva nella lettura della situazione geopolitica, quella della divisione tra il Nord e il Sud del pianeta. Non più, quindi, raggruppamenti ideologici, ma la constatazione della frattura che la Storia aveva creato tra i Paesi “centrali” o “industrializzati” (situati, con un paio di eccezioni, nel Nord del mondo) e tutti gli altri (in genere ex colonie impoverite, situate nel Sud del mondo). Nel dibattito sullo sviluppo compariva così il concetto di interconnessione e di interdipendenza: ricchi e poveri sono collegati tra loro, anzi “dipendono” reciprocamente.
Risalgono agli anni ’80 le prime lotte globali, a partire da temi come la pace, la tutela dei diritti umani, il debito estero dei Paesi poveri e la questione ambientale. Nel 1992 a Rio di Janeiro si tiene il primo “vertice della Terra” con il quale si afferma il concetto di “sostenibilità” dello sviluppo e si traccia il primo piano d’azione per combattere il cambiamento climatico. L’Unione Sovietica non c’è più e il mondo si apre velocemente agli scambi commerciali, abbattendo dazi, vincoli e tasse, ma anche diritti consolidati. È la globalizzazione di fine ’900 che, per la prima volta, aggiunge una dimensione assente in tutte le “globalizzazioni” precedenti: la delocalizzazione produttiva. Non solo merci che dalle periferie viaggiano verso i Paesi industrializzati, ma anche fabbriche che traslocano verso le stesse periferie per sfruttare la manodopera a prezzi irrisori. La nuova visione del mondo parla di unipolarismo, cioè di una sola potenza al comando, gli Stati Uniti; e di Paesi Brics, cioè i giganti del Terzo Mondo finalmente emersi: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica. All’orizzonte pare profilarsi un futuro di progresso illimitato.
Ma, alla prova dei fatti, la globalizzazione unipolare ha mostrato grossi limiti e difetti. Anzitutto l’incapacità, da parte degli Stati Uniti, di esercitare una governance globale in grado di evitare conflitti armati. Dall’Iraq alla Libia, dall’Afghanistan alla Siria si sono innescati nuovi conflitti. E contemporaneamente sono riemerse vecchie tensioni tra Nato e Russia, Turchia ed Europa, Corea del Nord e Corea del Sud. Sotto il profilo economico, la globalizzazione ha sì saputo mantenere le promesse di sviluppo nei Paesi poveri, ma non ha fornito valide alternative al deserto occupazionale che essa stessa ha creato nei Paesi di vecchia industrializzazione. Arriviamo quindi al paradosso odierno, nel quale la Cina è diventata la principale sostenitrice del mercato aperto globale e gli Stati Uniti di Trump si chiudono alla concorrenza internazionale, imponendo dazi e barriere a tutela dei loro prodotti.
Si potrebbe concludere affermando che l’equilibrio della Guerra Fredda garantiva una maggiore stabilità globale. Ma sarebbe un errore, perché durante quel periodo si sono avuti devastanti conflitti in Africa, Asia e America Latina, e a livello mondiale si viveva nel terrore dello scoppio di un conflitto nucleare. Oggi l’instabilità non è frutto di scontri ideologici, ma della latitanza della politica che non riesce a immaginare un nuovo ordine, e men che meno a metterlo in pratica. La principale differenza con il passato è la crescita esponenziale della società civile e dei mezzi di informazione, eppure la democrazia è in recesso. Insomma, oggi tutto avviene alla luce del sole: il problema è capire come ridare un ordine – e quale – al disordine.
Editoriale di Alfredo Somoza, Presidente ICEI
“Dalla Guerra Fredda alla Globalizzazione: 40 anni di politica estera raccontati da ICEI e Radio Popolare”
Primo appuntamento: lunedì 3 aprile, ore 21, Auditorium Radio Popolare (via Ollearo 5, Milano)
“Nord Sud, tra cooperazione e conflitto”
Saluto introduttivo di Michele Achilli (fondatore ICEI)
Relatori Chawki Senouci e Alfredo Somoza
Modera Sara Milanese